Novità per i permessi lavorativi per l’assistenza a un congiunto con handicap in stato di gravità: una sentenza recente della Corte di Cassazione, infatti, ha espresso il proprio parere sull’interpretazione delle disposizioni in materia. Con questa sentenza si arriva a contemplare anche, entro determinati limiti, il soddisfacimento delle esigenze del lavoratore.
In base a quanto stabilito dalla Suprema Corte, l’interesse primario espresso nella norma che istituisce questi permessi lavorativi è quello di «assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile» realizzate in ambito familiare. La Corte osserva che questa prospettiva consente che i permessi lavorativi siano «soggetti ad una duplice lettura: a) vengono concessi per consentire al lavoratore per prestare la propria assistenza con maggiore “continuità”; b) vengono concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al familiare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali».
Ma, si legge anche sul sito Superando.it, su un articolo di Simona Lancioni, “poiché una lettura non esclude l’altra, ed essendo certo «che da nessuna parte della legge, si evince che, nei casi di permesso, l’attività di assistenza deve essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa», è possibile concludere che è sufficiente che l’assistenza «sia prestata con modalità costanti e con quella flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore».
Pertanto se – sempre secondo la Cassazione – «i permessi servono a chi svolge quel gravoso [compito] di assistenza a persona [i.e. persone] handicappate, di poter svolgere un minimo di vita sociale, e cioè praticare quelle attività che non sono possibili quando l’intera giornata è dedicata prima al lavoro e, poi, all’assistenza», è tuttavia altrettanto ovvio che l’assistenza deve esserci, e che pertanto i permessi non possono essere considerati come dei veri e propri periodi di ferie dei quali il lavoratore potrebbe disporre discrezionalmente. Non è dunque ammissibile che – come nel caso specifico da cui è scaturita la Sentenza – il lavoratore utilizzi i permessi per recarsi all’estero, poiché tale attività non è compatibile con lo svolgimento di alcuna attività assistenziale. Un conto, cioè, è organizzarsi il lavoro di assistenza in modo da renderlo meno gravoso e compatibile anche con le esigenze del lavoratore, altra questione è invece assentarsi e non svolgere alcuna assistenza.
In conclusione, e in sintesi, ciò che viene espresso in questa Sentenza della Corte di Cassazione è che l’attività di assistenza non deve essere concepita come un qualcosa di totalizzante, ma come un lavoro dotato di una flessibilità tale da soddisfare contemporaneamente sia le esigenze della persona disabile (che rimane in ogni caso la beneficiaria della misura in questione), sia quelle del lavoratore che assiste (o, almeno,alcune di esse)”.
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