PEI, un vademecum per aiutarci a capire
Pubblichiamo alcune indicazioni relative ai PEI, il Piano Educativo Individualizzato, grazie ai preziosi consigli di Graziella Roda. Facciamo quindi un po’ di chiarezza su quanto indicato nel Decreto Ministeriale n.182/2020, e nello specifico:
- a) le ragioni per cui non sono state seguite le indicazioni fornite dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (CSPI);
- b) il PEI e alla programmazione per obiettivi.
Il parere del CSPI e le motivazioni per cui non è stato accolto
Innanzi tutto: cos’è il CSPI e in cosa consiste il parere che aveva espresso questo organo? Il CSPI è un “organo di garanzia” costituito presso il Ministero dell’Istruzione. A questo link https://www.miur.gov.it/cspi si possono trovare le indicazioni su cosa è, come viene costituito e quali competenze ha.
Il CSPI sul modello nazionale di PEI ha espresso un parere che viene definito “obbligatorio ma non vincolante”. Significa che il Ministero ha il dovere di chiedere ed attendere il parere del CSPI e di considerarlo, ma non è obbligato a seguirlo.
Il parere del CSPI sui modelli di PEI sottoposti alla sua attenzione si può leggere al link seguente.
Il CSPI ha suggerito al Ministero di procedere prima, in accordo con le Regioni, all’avvio del nuovo percorso di certificazione previsto dal Decreto Legislativo n.66/2017 corretto dal Decreto Legislativo n.96/2019.
In particolare si sottolineava che il futuro Profilo di Funzionamento, redatto dall’Unità di Valutazione Multidisciplinare, avendo come orizzonte il modello ICF (classificazione internazionale del funzionamento redatta dal OMS), avrebbe dovuto costituire la base su cui i GLO avrebbero poi redatto il PEI.
Il Ministero nelle premesse del decreto dedica diverse voci a spiegare perché ha deciso di non attendere questo passaggio fondamentale, dando avvio al PEI nel corso del presente anno scolastico.
Va sottolineato che, dal momento in cui le nuove certificazioni+profili di funzionamento diventeranno operativi, trascorreranno diversi anni prima che tutti gli allievi con disabilità ne siano provvisti, perché i nuovi profili si applicano alle nuove certificazioni (e forse ai rinnovi dei profili di funzionamento al cambio dell’ordine e grado di scuola, ma non è ancora sicuro perché, come dicevo, manca la normativa).
Quindi avremmo comunque avuto un tempo in cui i nuovi modelli di PEI avrebbero avuto alla base una parte di profili di funzionamento e una parte ancora le vecchie diagnosi funzionali e profili dinamico-funzionali.
PEI e programmazione per obiettivi
L’art. 2 del decreto fornisce una “summa” di cosa sia un PEI secondo la nuova normativa e cosa esso contenga.
Il PEI è lo “strumento di progettazione educativa e didattica e ha durata annuale con riferimento agli obiettivi educativi e didattici, a strumenti e strategie da adottare al fine di realizzare un ambiente di apprendimento che promuova lo sviluppo delle facoltà degli alunni con disabilità e il soddisfacimento dei bisogni educativi individuati”.
In questo incipit si parla di “obiettivi educativi e didattici”. Quindi il nuovo PEI assume a livello nazionale il modello di programmazione definito “per obiettivi” specificando “educativi e didattici”.
Cosa implica questa espressione?
La programmazione per obiettivi è soltanto uno dei possibili modelli di programmazione che sono stati sviluppati nella storia della scuola a livello internazionale. Dopo un periodo di “furore” negli anni Ottanta (a volte esagerato e insensato), come per tante altre cose, il rigore richiesto dalla programmazione per obiettivi è stato depotenziato e privato del suo originario significato.
Oggi si leggono programmazioni (sia per le materie curricolari sia nel sostegno) che usano il termine “obiettivo” per indicare espressioni che non lo sono.
In poche parole, un obiettivo è tale se indica chiaramente quale comportamento o quale performance l’alunno deve eseguire per dimostarne il raggiungimento. Cosa deve fare, come lo deve fare, in quali condizioni, con quali tempi.
“Migliorare la socializzazione” non è un obiettivo. É un impegno, è una speranza, ma non è un obiettivo in senso strettamente tecnico.
“Salutare i compagni all’ingresso a scuola dicendo Ciao+il nome”, questo è un obiettivo. Cui si deve aggiungere in quanto tempo deve essere raggiunto.
Per i ragazzi con disabilità, soprattutto grave, una programmazione per obiettivi parrebbe essere, al momento, una delle più “produttive” rispetto alla possibilità di verificarne l’effettiva realizzazione e di controllare periodicamente l’andamento.
Certamente valgono ancora le vecchie obiezioni all’eccessivo “meccanicismo” degli obiettivi, ma questo vale se gli insegnanti che li usano non sono sufficientemente formati e se ne fanno “dominare”.
La distinzione tra “obiettivi educativi” e “obiettivi didattici” dovrebbe riferirsi alla scansione degli obiettivi tra quelli raggiungibili in un periodo lungo (annuale), i quali che devono essere scomposti in piccoli step successivi di avanzamento, che io preferisco chiamare “obiettivi operativi” anziché didattici, perché le due espressioni “educativo e didattico” possono generare equivoci (educativo come riferito alla generalità della persona e didattico alla disciplina, ma nella disabilità questa separazione non ha senso).
Resta il problema, non da poco, che molti insegnanti NON sanno programmare per obiettivi.
Torniamo quindi al vecchio vezzo di obbligare per norma a fare delle cose che le persone non sanno fare, senza creare invece il percorso che potrebbe insegnare a tutti a farle, iniziando dalle Università che forniscono la formazione iniziale agli insegnanti.
Tuttavia occorre sottolineare ancora una questione.
La “programmazione per obiettivi”, nell’art. 2 del decreto, è quasi “buttata là”, inserita con nonchalance in frase complessa. Ma le parole in una legge non possono mai essere “buttate là”. E quindi bisogna rifletterci sopra.
Ricordiamo che la libertà di insegnamento nella nostra Costituzione è un diritto individuale degli insegnanti, che non possono “delegarlo” ad altri organi, né individuali né collettivi (vedasi ad esempio la Sentenza della Corte Costituzionale n. 77/1964 e la Sentenza n.240/1972).
Anche le norme sull’autonomia delle Istituzioni Scolastiche fanno riferimento alla libertà di insegnamento, e non potrebbe essere diversamente.
Tuttavia bisogna richiamare con forza il fatto che il diritto individuale dell’insegnante alla libertà di insegnamento è modulato, arginato e condizionato dai suoi doveri e dai diritti di altri, in primo luogo quello di assicurare il successo formativo dei propri alunni. Tanto per dirla in soldoni, un insegnante il cui alunno non apprende e non fa progressi, non può continuare ad insegnare usando lo stesso metodo e appellandosi alla libertà di insegnamento. La libertà è quella di scegliere il percorso di insegnamento più efficace per ciascuno dei propri alunni, ed è dimostrato dal fatto che essi imparano e migliorano.
Quindi la domanda è: può lo Stato imporre la programmazione per obiettivi? Credo sia difficile. Può lo Stato sostenere una programmazione per obiettivi qualora essa costituisca il modello di riferimento più utile in determinate occasioni? Se lo è (più utile) credo di sì. Ma io non sono un giurista e mi limito a porre questi quesiti per invitare a non scorrere le norme leggendole come se fossero pagine di un romanzo o un articolo di giornale. Le parole della Legge sono parole pesanti e se vogliamo essere cittadini e non sudditi dobbiamo imparare a valutarle come tali.
Ambiente di apprendimento
Come ho riportato nella mail precedente, l’art. 2 del decreto fornisce una “summa” di cosa sia un PEI secondo la nuova normativa e cosa esso contenga.
Il PEI è lo “*strumento di progettazione educativa e didattica e ha durata annuale con riferimento agli obiettivi educativi e didattici, a strumenti e strategie da adottare al fine di realizzare un ambiente di apprendimento che promuova lo sviluppo delle facoltà degli alunni con disabilità e il
soddisfacimento dei bisogni educativi individuati”*.
Per avere in modo esteso degli esempi di osservazione strutturata e di deduzione da essa di obiettivi operativi potete consultare i Quaderni Autismo pubblicati sul sito dell’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna al link:
https://www.istruzioneer.gov.it/media/studi-e-documenti/archivio-studi-e-documenti/
Qui trovate l’indice della collana Studi e Documenti, nel cui ambito sono collocati i Quaderni Autismo. Per ora ne sono stati pubblicati 4 ma dovranno diventare 6, si spera a breve.
L’espressione “ambiente di apprendimento” non appartiene al “linguaggio veicolare”, cioè alla lingua che normalmente usiamo per comunicare; è invece linguaggio tecnico, pedagogico e scolastico. Non indica quindi un qualsiasi generico luogo in cui si apprende.
Un “ambiente di apprendimento” è sicuramente un luogo fisico oppure virtuale (oggi con la didattica a distanza questo contesto acquisisce particolare rilevanza.
Il luogo, fisico o virtuale, per poter essere considerato un ambiente di apprendimento deve in primo luogo essere organizzato/strutturato in modo specifico rispetto alle attività di insegnamento/apprendimento che lì vi si svolgono. Deve contenere gli strumenti atti ad insegnare in modo che gli alunni apprendano nel modo più adatto alle proprie caratteristiche, con i
supporti più idonei, ecc.
Scrive Silvana Loiero “*Possiamo pertanto provare a definire l’ambiente di apprendimento come un contesto di attività strutturate, “intenzionalmente” predisposto dall’insegnante, in cui si organizza l’insegnamento affinché il processo di apprendimento che si intende promuovere avvenga secondo le modalità attese: ambiente, perciò, come “spazio d’azione” creato per stimolare e sostenere la costruzione di conoscenze, abilità, motivazioni, atteggiamenti. In tale “spazio d’azione” si verificano interazioni e scambi tra allievi, oggetti del sapere e insegnanti, sulla base di scopi e interessi comuni, e gli allievi hanno modo di fare esperienze significative sul piano cognitivo, affettivo/emotivo, interpersonale/sociale*” [http://www.funzioniobiettivo.it/glossadid/ambiente_apprendimento.htm].
Se ampliamo l’espressione, “ambiente di apprendimento inclusivo” si arriva all’indicazione di un luogo (ripeto: fisico o virtuale) in cui ciascun alunno può trovare le migliori condizioni per apprendere insieme ai compagni.
Non posso dilungarmi di più, ma una cosa deve essere chiara: una classe tradizionale, con banchi, qualche scaffale, lavagna (anche interattiva), in cui tutti ascoltano l’insegnante che spiega o che interroga mentre l’alunno certificato sta nel suo angolo con accanto l’insegnante di sostegno che gli fa fare le cose sue, ecco: questo NON è un ambiente di apprendimento, tantomeno inclusivo. Esattamente come non lo sono le tante “aulette di sostegno” con qualche sedia scompagnata, armadi sbilenchi, giochi vecchi e consunti, pennarelli scompagnati, e magari un vecchio computer buttato lì, in cui si va a fare qualche lavoretto, a sfogliare qualche carta PECS, ecc.
Per chiunque conosca una sezione o una classe montessoriana: ecco questo è un esempio di ambiente di apprendimento creato cento anni prima che questa espressione venisse coniata.
Una specificazione per l’autismo: un ambiente di apprendimento inclusivo per gli alunni con autismo dovrebbe essere ovviamente strutturato e organizzato comprendendo anche le loro specifiche condizioni. Se si tratta, ad esempio, di alunni facilmente disturbati dal rumore, dovrebbe avere delle insonorizzazioni; se ci sono problemi con le luci al neon, l’illuminazione dovrebbe essere cambiata; se occorrono le famose “strisce” illustrate per supportare l’azione in autonomia dell’alunno, queste dovrebbero esserci. E così via. Dovrebbe esserci uno scaffale o un armadio
a lui accessibile e strutturato in modo che lui possa orientarcisi, per svolgere in autonomia qualche compito, ad esempio attraverso una organizzazione di “shoebox task” (diversi esempi in questa pagina Pinterest
https://www.pinterest.it/jules24ih/shoebox-tasks/ o qui
https://www.pinterest.ca/shudyma/shoebox-tasks/ )
Gli spazi strutturati TEACCH erano sicuramente ambienti di apprendimento, ma non inclusivi, in quanto dedicati soltanto agli alunni con autismo nelle scuole speciali.
*Cosa contiene il PEI?*
Lasciando da parte la questione “ambiente di apprendimento inclusivo” chiudiamo l’art. 2 del decreto con le indicazioni su cosa nel PEI deve comparire:
Il PEI, dunque:
a) garantisce il rispetto e l’adempimento delle norme relative al diritto allo studio degli alunni con disabilità
b) esplicita le modalità di sostegno didattico, compresa:
- la proposta del numero di ore di sostegno alla classe,
- le modalità di verifica,
- i criteri di valutazione,
- gli interventi di inclusione svolti dal personale docente nell’ambito della classe e in progetti specifici,
- la valutazione in relazione alla programmazione individualizzata
- gli interventi di assistenza igienica e di base, svolti dal personale ausiliario nell’ambito del plesso scolastico
- la proposta delle risorse professionali da destinare all’assistenza, all’autonomia e alla comunicazione, secondo le modalità attuative e gli standard qualitativi previsti dall’Accordo di cui all’articolo 3, comma 5-bis, del DLgs 66/2017
Ciascuna di queste voci (insieme ad altre) costituisce una parte della trattazione sia del decreto sia delle Linee Guida.
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